Il gioco dell’opera: Opera begins

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Bentornati! Le vacanze, ahinoi, sono finite, e siamo pronti a cominciare insieme un nuovo percorso di approfondimento; come la scorsa stagione ci siamo dedicati a Verdi e Wagner in occasione del doppio bicentenario, quest’anno invece parleremo esclusivamente di opera italiana, in omaggio al cartellone del Teatro Regio.

L’opera, d’altra parte, è un’invenzione tutta italiana: e non c’è modo migliore di accostarsi per la prima volta al melodramma che quello di ripercorrerne le tappe più significative dalle origini fino ai giorni nostri.

Vi ricordiamo che dopo la seconda puntata, in pubblicazione già tra sette giorni, l’appuntamento sarà ogni due settimane più le tre consegne del torneo on line, che vi anticipiamo saranno pubblicate a febbraio, marzo e aprile. Questo percorso è quindi dedicato in particolare alle classi iscritte al Gioco dell’opera, ma saremo lieti di ricevere contributi da parte di tutti coloro che avranno voglia di seguirci, in particolare gli studenti coinvolti nei percorsi didattici All’opera, ragazzi!

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PARTE PRIMA: PRELUDIO 

… si doveva imitar col canto chi parla (e senza dubbio non si parlò mai cantando)[1]

Firenze, 6 ottobre dell’anno 1600. In occasione delle celebrazioni per il matrimonio tra  Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia va in scena presso  palazzo Pitti L’Euridice con musiche di Jacopo Peri e Giulio Caccini su testo di Ottavio Rinuccini; questa composizione a più mani, pure fra dispute, rivendicazioni di paternità e ristampe, è la prima ad essere giunta fino a noi completa di testo e musiche, diventando così la pietra miliare che segna, nella storia della musica, la nascita del melodramma.

Uno sguardo al contesto

Il XVI secolo segna un momento di svolta in tutte le arti: segue alla presa a modello dei classici e della natura una rielaborazione personale che lasci emergere, dall’ordine, l’interiorità e l’espressione degli affetti attraverso la ricerca dell’effetto, dello stupore, della meraviglia. Laddove nelle arti figurative questo percorso si traduce nel passaggio dal Rinascimento al Manierismo e poi al Barocco, in musica, pure con intenzioni espressive molto simili, il passaggio sarà inverso: dalla polifonia alla semplificazione, dalla musica rinascimentale considerata “barbara” al recupero di un ideale classico, ispirato al mondo greco.

Già dalla fine del XV secolo la musica aveva progressivamente cominciato a infiltrarsi nella scena teatrale: da quel periodo in poi “commedie, tragedie, drammi pastorali, feste teatrali, rappresentazioni allegoriche accolgono momenti musicali[2]. Tra le tappe importanti di questo processo, che porterà alla nascita di una nuova forma d’arte, ricordiamo la Favola d’Orfeo di Angelo Poliziano, rappresentato a Mantova intorno al 1480 e la messa in scena della tragedia di Sofocle Edipo tiranno, nella traduzione di Orsatto Giustiniani, al Teatro Olimpico di Vicenza nel 1585, con musiche di Andrea Gabrieli. Individuiamo qui due indizi importanti di quello che sarà il primo modello drammaturgico del nascente melodramma: i temi prescelti sono di ambientazione arcaica e provengono dalla mitologia e dalla tragedia greca o dai temi bucolici delle favole pastorali della letteratura latina. Si trattava però in questi casi di quelle che potremmo chiamare musiche di scena, utilizzate per accompagnare coreografie, cambi di scena oppure sonorizzare l’azione (in alcuni casi attraverso il canto) di specifici personaggi, ancora lontane dalla sempre crescente esigenza di “mettere in scena gli affetti”.

A far questo ci aveva già provato il madrigale del tardo ‘500, un primo passo verso la rappresentazione dell’azione in musica attraverso forme espressive però ancora polifoniche. La polifonia presupponeva lo sviluppo di più linee vocali in contemporanea, senza una evidente gerarchia delle voci: le esigenze teatrali di una azione scenica presupponevano invece la comprensione del testo pronunciato e una chiara identificazione del personaggio alla voce che lo rappresenta. È per questo che Vincenzo Galilei, liutista e trattatista padre del celebre Galileo, nel suo Dialogo della musica antica e moderna (1581), definisce i polifonisti “Goti” e auspica invece un recupero dell’ideale classico rappresentato dalla musica greca, monodica (ovvero a una voce sola). A dimostrazione di ciò presentava nel suo trattato gli Inni di Mesomede[3] (senza trascriverli in notazione moderna) e proponeva una versione musicata del Lamento del conte Ugolino dal XXXIII canto dell’Inferno di Dante (purtroppo perduta).

 Galilei faceva parte, insieme ad altri musicisti e letterati, dell’Accademia neoplatonica denominata Camerata de’Bardi, che si riuniva appunto presso la casa del conte Bardi (più tardi del conte Corsi), a Firenze: obiettivo della Camerata era quello di dare vita ad un tipo di spettacolo che ricreasse l’unione di poesia e musica peculiare della tragedia greca.

 Ed è negli intermedi, brevi scene cantate e danzate a soggetto mitologico o allegorico posto tra un atto e l’altro delle tragedie teatrali, che la musica comincia a permeare la struttura dell’azione scenica superando a poco a poco il ruolo esclusivamente funzionale a cui era destinata in precedenza. L’ambiente in cui questo tipo di spettacolo nasce e si sviluppa è quello delle corti: grandi feste o ricorrenze durante le quali mettere in scena lo sfarzo, la potenza, la ricchezza e la politica illuminata dell’ospite mecenate. A questo scopo si prestano benissimo i soggetti allegorici o mitologici, laddove necessario opportunamente modificati nel finale per celebrare il trionfo dei regnanti.

Apogeo di questa forma di spettacolo si raggiunge con gli intermedi rappresentati a Firenze nel maggio 1589 in occasione dei festeggiamenti per le nozze del granduca Ferdinando I e Cristina di Lorena; progettati e messi in scena dal conte Bardi e dalla Camerata, consistevano in sei scene di argomento mitologico e allegorico, con musiche dello stesso Bardi, di Emilio de’Cavalieri, Cristoforo Malvezzi, Luca Marenzio, Jacopo Peri, Giulio Caccini e altri. Altro spettacolo chiave nel lavoro di ricerca della Camerata fu, sempre nel carnevale del 1589, la Dafne su versi di Rinuccini con musica del conte Corsi (dilettante): anche questa purtroppo quasi interamente perduta, si tratta però del primo vero e proprio esempio di melodramma.

Peter Paul Rubens, Matrimonio di Maria de' Medici, 1622-25, Louvre, Parigi

Peter Paul Rubens, Matrimonio di Maria de’ Medici, 1622-25, Louvre, Parigi

Parallelamente a questo processo, il linguaggio musicale va modificandosi alla ricerca di una formula che permetta l’intelligibilità del testo, la ricerca dell’effetto, l’espressione dell’affetto e la chiara identificazione del personaggio: una forma musicale, quindi, che permetta la narrazione di una azione scenica. Come abbiamo già anticipato, la soluzione sta nella monodia accompagnata, ovvero il canto a una voce sola, intonato in modo da sottolineare il rapporto tra parola e musica, sostenuto da un tappeto armonico strumentale. È la nascita del basso continuo e, di conseguenza, dell’armonia moderna. Il basso continuo, o numerato, presupponeva l’esecuzione da parte di più strumenti, di cui solitamente uno ad arco e uno polifonico (una tastiera), di una linea musicale che accompagnasse e sostenesse il canto senza interruzioni: di consueto era codificato per abbreviazioni e quindi “cifrato” o, appunto, numerato. Spettava al tastierista suonare in forma completa (“realizzare”) il basso in modo estemporaneo durante l’esecuzione, quanto accade in una certa misura ancora adesso (naturalmente con un diverso sistema di notazione) nel jazz e nel pop.

E sarà questo il linguaggio musicale proprio del melodramma: quella  strada “mezzana” fra la “melodia del cantare” e “l’armonia del parlare ordinario” adeguando l’uno all’altra la lentezza sospesa del canto e la speditezza del parlato[4] teorizzata da Jacopo Peri proprio nella prefazione alla Euridice. Il canto, nelle prime opere, è quindi un “declamare le parole intonate” con atteggiamento che richiami la pronuncia naturale. Naturale, non realistica: “senza dubbio non si parlò mai cantando “, come citato in apertura, e l’ambientazione mitologica e pastorale facilita l’assimilazione di questa licenza artistica. Sarà Emilio de’Cavalieri in occasione della Rappresentazione di anima et di corpo*, allegoria messa in scena all’Oratorio di San Filippo in Roma, a coniare la definizione di “recitar cantando”; la monotonia di questa forma musicale è spezzata da cori pastorali, coreografie e balli che in origine sono parte integrante di tutti gli spettacoli. Non dimentichiamo che il primo obiettivo delle rappresentazioni messe in scena in seno alle corti è la celebrazione allegorica del potere, e come tale il lieto fine del dramma teatrale oltre che l’esibizione dello sfarzo.

Da Firenze il nuovo tipo di spettacolo si espande presto alle altre corti: Mantova, dove è in attività Claudio Monteverdi (protagonista del prossimo approfondimento), Parma, Bologna, Torino e soprattutto Roma, dove dal quadro generale di favole pastorali e mitologiche si distingue invece il Sant’Alessio di Stefano Landi (su libretto di Giulio Rospigliosi futuro papa Clemente IX), messo in scena in un grande teatro privato con scenografie di Bernini e parti vocali più virtuosistiche, permesse dall’ingaggio di cantanti professionisti.

Non è ancora teatro pubblico, ma con lo svolgimento delle stagioni su base regolare, la ricerca del consenso del pubblico anziché la celebrazione allegorica del potere e la professionalità della messa in scena anticipano il grande cambiamento che porterà alla nascita del vero e proprio teatro d’opera così come si svilupperà nel secolo successivo.

Mentre l’opera si espande e comincia a maturare queste importanti trasformazioni, a Firenze, culla del nuovo genere, si assiste al tramonto dell’opera di corte: la fine è segnata dalla rappresentazione, nel 1637, de Le nozze degli dei, colossale spettacolo celebrativo per il matrimonio tra il granduca Ferdinando II e Vittoria della Rovere. E proprio nello stesso anno, a Venezia, con l’apertura del teatro San Cassiano, nasce finalmente l’opera impresariale.

In chiusura, vi proponiamo l’ascolto di due versioni di un brano di Giulio Caccini tratto da Le Nuove Musiche (1602), composto nel nuovo stile monodico: confrontatele e condividete con noi le vostre osservazioni.

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[1] prefazione alla partitura, Jacopo Peri, L’Euridice, su testo di Ottavio Rinuccini, Marescotti, Firenze 1600
[2] Fabrizio DORSI, Giuseppe RAUSA, Storia dell’opera italiana, Mondadori, Milano 2000, p. 4
[3]
Lorenzo ARRUGA, Il teatro d’opera italiano, Feltrinelli, Milano 2009, p. 9
* Anche il genere religioso dell’oratorio condivide infatti le origini del melodramma

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